Llibres i música en temps de desassossec: “Boccaccio, Manzoni, cronisti della pandemia?”

Obra
T. Lombardo. Parella de joves. Kunsthistorisches Museum. Viena. Autor: J. Carbonell

L’aportació de la Facultat de Filosofia i Lletres en els moments estranys que vivim serà en forma de reflexions i consells literaris, filosòfics i musicals a l’entorn de la persona i de les pestes que ens afligeixen, col·lectives, però també individuals.

07/05/2020

Come sono state le reazioni degli umani, le loro paure, quali le parole durante le grandi epidemie del passato? Avviene lo stesso in occasione di ogni pandemia più o meno? Sarebbe utile in questo momento rivolgere la nostra attenzione a alcuni autori, che oltre a Camus, hanno trattato l’argomento in molti casi vissuto in prima persona come, per la letteratura italiana Boccaccio e Manzoni. Concentriamoci sull’autore del “Decameron”. A giudicare dalla descrizione che Boccaccio fa della peste del 1348, e di cui ci ha lasciato nell’ “Introduzione al Decameron” una vera e propria cronaca, sembra proprio che ci siano molti punti di contatto fra le diverse situazioni pandemiche. A leggere queste pagine non si può evitare di notare i tanti punti di contatto. Non è forse uguale l’impotenza della medicina davanti all’infuriare del morbo, come si legge nel paragrafo 13?: “A cura delle quali infermità né consiglio di medico né virtù di medicina alcuna pareva che valesse o facesse profitto”. No è uguale la virulenza del contagio, come leggiamo nel paragrafo 14? “E fu questa pestilenza di maggior forza; per ciò che essa dagli infermi di quella per lo comunicare insieme s' avventava a' sani, non altramenti che faccia il fuoco alle cose secche o unte quando molto gli sono avvicinate.”

 

E che dire dell’acume con cui ci dice della capacità del virus di rimanere attaccato sulla superficie delle come troviamo in 15? “E più avanti ancora ebbe di male: ché non solamente il parlare e l'usare cogli infermi dava a' sani infermità o cagione di comune morte; ma ancora il toccare i panni o qualunque altra cosa da quegli infermi stata tocca o adoperata pareva seco quella cotale infermità nel toccator transportare.” E ancora dell’origine del morbo a Oriente (paragrafo 8/9) anche se molti anni prima, mentre invece nel mondo globale di oggi, la diffusione del morbo ha la rapidità supersonica di un jet? “Alquanti anni davanti nelle parti orientali incominciata, quelle d' innumerabile quantità di viventi avendo private; senza ristare, d'un luogo in un altro continuandosi, verso l’Occidente miserabilmente s'era ampliata.”

 

Ho lasciato per ultimo un argomento che mi pare essenziale. Si tratta dell’apparizione e dell’uso di parole nuove. Come allora, nel 1348, sono entrate in tutte le lingue nuovi concetti e accezioni nuove di vecchie parole. Boccaccio usa per la prima volta nella lingua scritta la parola toscana «gavocciolo» , con il significato di “peste, e quello enfiato, che fa la peste”. Si legge nei paragrafi 10-11: “ma nascevano nel cominciamento d’essa a’ maschi e alle femmine parimenti o nella anguinaia o sotto le ditella certe enfiature, delle quali alcune crescevano come una comunal mela, altre come uno uovo, e alcune più et alcun' altre meno, le quali i volgari i nominavan «gavoccioli»”. Quindi applica una parola volgare per dare più concretezza al termine ‘enfiatura’ che forse per lui era troppo vago. E lo fa con un termine nato dal basso. La parola non ebbe una grande diffusione ma la troviamo anche nella descrizione della peste in Alessandro Manzoni nei “Promessi sposi" (1827). Leggiamo la

versione dell’incubo di Don Rodrigo che al risveglio scopre il terribile bubbone che lo tormentava nel sonno e che è la certezza di essere appestato:

 

“Scorse un pulpito, e vide dalle sponde di quello spuntar su [...] fra Cristoforo. Il quale [...] parve a don Rodrigo che lo fermasse in volto a lui, levando insieme la mano [....]. Egli allora levò pure la mano in furia, fe' uno sforzo, come per lanciarsi ad abbrancar quel braccio teso in aria; una voce che gli andava rugghiando sordamente nella gola, scoppiò in un grand'urlo; e si destò. Lasciò cadere il braccio che aveva levato in effetto; penò alquanto a riprender del tutto il sentimento, ad aprir ben gli occhi; chè la luce del dì già alto gli dava noia [...]; riconobbe il suo letto, la sua stanza; comprese che tutto era stato sogno [...] tutto era svanito; tutto fuorchè una cosa, quella doglia al lato manco [...]. Esitò qualche pezza, prima di guardare alla parte dogliosa; finalmente la scoperse [...] e scorse un sozzo «gavocciolo» d'un livido pavonazzo. L'uomo si vide perduto: il terrore della morte lo invase[...].”

 

Oggi immersi come siamo negli europeismi o globalismi, non possiamo che esprimere le novità della contingenza con i termini che ci arrivano già belli confezionati uguali per tutto il mondo come ‘coronadating’ (flirtare online), ‘lockdown’ (isolamento di emergenza), ‘droplet’ (trasmissione del virus), “furbetti della quarantena” (cioè quelli che intendono sfuggire all’isolamento, con le variate sfumature), ‘coronials’ (le generazione che nascerà nei prossimi mesi a conseguenza del distanziamento sociale e dell’isolamento), ‘dracula cough’ (starnutire sul gomito), ecc. Dunque insieme al contagio virale c’è anche la viralità tecnologica e linguistica. Appaiono mostri verbali che spesso stentano a trovare una traduzione italiana o romanza (catalana, spagnola ecc.), e che sono uguali in gran parte del mondo perché provengono o imitano espressioni di altre lingue, specialmente inglesi, sintomi tutti ancora una volta di quella globalizzazione che ha diffuso il virus a una velocità in altri tempi impensabile. Boccaccio forse ne avrebbe preso spunto per riderne in un bel racconto sulle parole che fanno parte della precaria realtà umana.

 

[El text resumeix un article més llarg redactat a propòsit de la pandèmia]

 

Rossend Arqués Corominas (Departament de Filologia Francesa i Romànica)